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LA MIA VITA DA ALBINA. Vedo pochissimo e non posso prendere il sole di Simone Fanti
Pubblicato su Ok Salute e Benessere il 28 ottobre 2012
 

La lavagna per me è come non fosse esistita, in classe. Non sono mai riuscita a vederla completamente, a causa dell’ipovisione che accompagna la vita di ogni albino. Già, ho una vista molto ridotta, oltre a una pelle chiarissima e a capelli biondo platino, che sono l’aspetto più visibile della mia condizione, dovuta a una ricombinazione mutata dei geni del mio Dna.
Sono nata così, ma questo non mi ha impedito di laurearmi in ingegneria biomedica. Anzi, forse la condizione di svantaggio mi ha dato la forza di spingermi oltre i miei limiti, per dimostrare agli altri e a me stessa di essere più brava. Una sorta di rivincita nei confronti della natura. Qualcuno la chiama resilienza, ovvero la capacità di uscire psicologicamente più forti da una situazione di difficoltà. Sempre che si tratti effettivamente di una vita più difficile.
Devo dire che i tempi moderni aiutano la vita di un albino. Per esempio, molti computer e i tablet consentono di allargare i caratteri a volontà, venendo incontro a chi ha problemi visivi come me. E le creme a protezione altissima, seguendo molte cautele per il sole, aiutano a limitare i problemi di scottature, eritemi o ancor peggio tumori della pelle.
Posso dire di avere avuto un’esistenza normale. Certo, quando sei albina non puoi evitare gli sguardi incuriositi della gente, ma dopo un po’ ci fai l’abitudine.
Anzi, poi ti capita di divertirti anche dinanzi allo stupore di chi ti circonda. Un giorno, mentre attendevo l’autobus (non ho la patente, come accade a tutti gli albini proprio a causa della vista troppo bassa), mi sono seduta accanto a una donna di colore con in braccio un bambino che avrà avuto un paio di anni. Il piccoletto ha guardato la madre, poi ha guardato me, poi ancora la madre e si è messo a ridere divertito dal fortissimo contrasto tra le due persone che aveva davanti... Risa senza malizia, senza inibizioni.

SONO INGEGNERE E MAMMA DI UNA BAMBINA Non sempre tutto è stato semplice. Fin dalla scuola materna non riuscivo a spiegarmi il perché di certi trattamenti speciali che le maestre mi riservavano: ero vicino alla cattedra o in prima fila e difficilmente mi lasciavano uscire per i giochi all’aperto. Non sapevo che lo facevano per il mio bene, i miei genitori si erano molto raccomandati: la mia pelle non sopportava i raggi ultravioletti e i miei occhi erano quasi feriti dalla luce brillante del sole. A volte, poi, i compagnetti mi canzonavano per i miei capelli e per i miei occhi troppo chiari. Ma la mia famiglia, con grande intelligenza, mi è stata sempre al fianco e non ha mai posto limiti alle mie aspirazioni. Non mi ha mai vietato lo sport, ma ne ha scelto uno dove la vista non era così fondamentale, come il nuoto. In altre parole, ha trovato soluzioni alternative, indirizzando le mie energie verso attività che potevo compiere, permettendomi comunque di esprimere le mie potenzialità. E forse è a questo che devo ciò che sono oggi: lavoro in una società informatica, sono sposata e a dicembre del 2011 sono diventata mamma di Lucia. Non ho dimenticato chi sono ed è per questo che faccio anche la presidentessa di Albinit, l’Associazione nazionale albini: bisogna lottare perché in alcuni contesti il problema della discriminazione continua a esserci. Niente a che vedere con l’emarginazione degli albini in Africa, naturalmente, allontanati dalle famiglie e a volte sacrificati. Un orrore. Ma l’ignoranza gioca brutti scherzi anche in Italia. E far conoscere di più la base scientifica della nostra condizione è necessario.



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