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Rassegna stampa, radiotelevisiva e web
 
Troppo Bianca di Emily Urquhart
Pubblicato sul numero 1030 di Internazionale il 13 dicembre 2013
 

I curiosi arrivano da tutte le corsie dell’ospedale. Un audiologo, un’assistente sociale, una consulente dell’allattamento, medici a rotazione e un flusso continuo di infermiere. Abbiamo una stanza singola, ma la nostra nuova famigliola di tre persone non è quasi mai sola. Non è una cosa insolita nel reparto maternità. Il fatto strano, però, è che le infermiere vengono a trovarci anche se non hanno nessun motivo di passare da noi. Si materializzano al mio fianco, con aria quasi di scusa, per dare un’occhiata alla nostra bambina. “Com’è chiara!”, mi dicono, poi ripetono tra loro: “I capelli sono proprio chiari”. Sadie Jane è nata dopo la consueta fatica il giorno di Santo Stefano del 2010. Ha il volto liscio e paffuto, con lineamenti perfettamente formati e una massa di capelli bianchi in testa. Con la bocca arrotondata in una minuscola O, agita continuamente le manine cercando di raggiungere le mie braccia, il mio latte, il mio calore. I suoi occhi a volte si spalancano, ma di solito sono chiusi. In un raro e fuggevole momento di risveglio, la pediatra del reparto le controlla le pupille con una minuscola torcia. Dopo, guarda al di là di me e mio marito Andrew, al di là dei miei genitori, fissando lo sguardo sulle colline costellate di abeti dietro l’ospedale. “Avete una bambina molto chiara e molto sana”, dice. Non la vedremo più.
La mia bambina è la più bella di tutte. Il peso del mio orgoglio è insopportabile, troppo grande per la nostra minuscola stanza nel reparto maternità. Organizzo un servizio fotografico sul mio letto, e Andrew scatta la foto che diventerà l’annuncio della nascita di Sadie. Clicco l’immagine in tutto il pianeta.
Il giorno dopo, Andrew prende in braccio Sadie e fa una passeggiata in corridoio. Le infermiere gli si affollano intorno, facendo apprezzamenti sui suoi capelli bianchi e insieme rimproverandolo: “Non si portano i bambini in corridoio! Che capelli!”. Sta tornando indietro quando un’infermiera chiede: “È albina?”.
Quando Andrew telefona a sua madre e le racconta questa strana storia, lei si sente stringere il cuore. Non sa cosa dire, perché anche lei e il padre di Andrew, Don, si sono fatti la stessa domanda quando hanno visto la foto della nipote. Don, medico di famiglia a Georgetown, in Ontario, diventa sempre più nervoso con il passare dei giorni. “Perché la pediatra non ha detto qualcosa?”, si chiede. È sicuro al 99 per cento, per quanto può esserlo senza averla visitata, che Sadie ha una malattia genetica incurabile chiamata albinismo. Nel giro di una settimana, Don sarà su un aereo per raggiungerci qui in Terranova. Il suo ruolo, come nonno, non è quello di portare brutte notizie mediche. Fa parte del personale di appoggio, non del controllo a terra, ed è certo che durante la visita settimanale il nostro medico dirà qualcosa. A quel punto potrà darci delle indicazioni. L’albinismo, un disordine genetico, è al tempo stesso evidente e misteriosamente complesso (come per “ritardato”, i più attenti non usano più il termine “albino”). Le persone affette da albinismo oculocutaneo sono caratterizzate dall’assenza o dalla riduzione della pigmentazione nella pelle, nei capelli e negli occhi. Sono relativamente poco protette dal sole, le bruciature sono rapide e pericolose e possono provocare un tumore della pelle.
Gli effetti sulla vista sono più complicati. Normalmente, quando l’iride è esposta a un bagliore attiva la pupilla, una sorta di guardiano che controlla quanta luce raggiunge il retro dell’occhio. Senza questo sistema di regolazione, la luce penetra attraverso la pupilla e l’iride danneggiando lo sviluppo della retina e interferendo con il nervo ottico (il sistema di trasmissione delle informazioni visive che collega gli occhi al cervello). L’albinismo influenza anche lo sviluppo della fovea, un gruppo di coni al centro della retina che sono responsabili dell’acuità visiva. Intorno alle sei settimane, quasi tutti i bambini affetti da albinismo sviluppano il nistagmo, un movimento oscillatorio e involontario degli occhi. Non sappiamo perché succeda, ma non ha rapporto con la pigmentazione. Quello che invece sappiamo è che la ridotta pigmentazione provoca la fotofobia, e la luce del giorno può essere intollerabile. Somiglia a quei primi momenti di disagio in cui strizziamo gli occhi uscendo da un cinema buio alla luce del sole. Nell’insieme, questo cocktail complicato di problemi oculistici si chiama ipovisione, ed è come vedere il mondo attraverso la lente Hipstamatic di un iPhone. I pixel sono più grandi, il mondo è un po’ più brillante, e anche se non è indistinto i dettagli più sottili si perdono.
Ci sono pochi esperti in questo settore. L’albinismo coinvolge una serie di specializzazioni – genetica, oftalmologia, dermatologia – e la maggior parte dei medici generici non ha un solo paziente albino in tutta la carriera. Quando andiamo dalla dottoressa di famiglia, una settimana dopo essere usciti dall’ospedale, lei liquida i timori di mio marito per i commenti della infermiera. “Ho già visto bambini con la pelle così chiara”, ci dice. Gli appunti della nostra visita dicono che Sadie ha la pelle molto chiara, che i suoi occhi sono normali e che sta benissimo. Sta benissimo! Il mio orgoglio materno esplode. La mia bambina sta magnificamente. Mio marito, però, non sta bene per niente.
Qualche ora dopo la visita, portiamo il cane a fare una passeggiata e ci fermiamo in un cortile vicino dove si mette a correre in tondo inseguendo la sua ombra sulla neve inondata di luce. Sadie è infilata dentro il cappotto del padre, attaccata a un aggeggio che la tiene vicina al suo petto e lontana dal freddo. Noi ci trasciniamo silenziosamente avanti e indietro per tenerci caldi. Un buio pesante riempie l’aria tra noi. È con noi da quando abbiamo lasciato l’ospedale. Andrew ha qualcosa che non va. Lo trovo seduto in silenzio nell’oscurità della sera. Accendo le luci, e lui torna a spegnerle. Perfino la sua macchina fotografica, che non ha mai smesso di sparare flash dal primo vagito di Sadie, è diventata buia. Ma quando gli chiedo cosa c’è che non va, non riesce a trovare le parole per dirmelo.
Mio marito è il genere di persona che prende la guida del branco in una situazione di crisi. Questa forza, insieme alla sua altezza, ai capelli scuri e agli occhi verdi – e a quanto può essere buffo – è quello che mi ha fatto innamorare. Ma dalla nascita di nostra figlia si è spento. È lontano e irraggiungibile. La paternità diventa il suo tallone d’Achille. I miei suoceri arrivano il giorno dopo. Don esamina attentamente Sadie con il contenuto della sua borsa da medico. Si assume la responsabilità che, come nonno, aveva sperato di evitare. Aspetta fino a quando il figlio, evidentemente tormentato, va da lui. Andrew è triste, ma aperto alla possibilità di un problema. Sadie dorme tra le mie braccia quando lui mi riferisce le preoccupazioni di suo padre, liberando la sua paura imbottigliata. Per me, l’ipotesi è esasperante e impossibile.
Quando arriva mezzogiorno e non ho ancora parlato con i miei genitori, mi viene gentilmente suggerito di telefonare. Seduta in una sedia a dondolo accanto alla finestra della cameretta di Sadie, con il telefono in mano, guardo il panorama che mi è così familiare e lo trovo deformato. Le case a schiera, ammucchiate una sopra l’altra sulla collina di Prescott, i due campanili della basilica di St. John, il grigio cielo invernale: è tutto storto. Faccio il numero e aspetto che mia madre risponda.
“Sadie potrebbe avere qualcosa che non va”, le dico. Ho un nodo alla gola, e non posso continuare.
Mia madre, che ascolta all’altro capo del filo, non ha un attimo di esitazione. “Nessuno le vorrà meno bene per questo”.
Non mi sono certo sfuggite le stranezze dell’arrivo di mia figlia, ma le interpreto a modo mio. Andrew è un biologo, in sintonia con l’ordine naturale del mondo. Io sono una studiosa di folklore, e camminare tra fantasia e realtà è il mio lavoro. Credo nella scienza, ma capisco le favole. Gli straordinari capelli bianchi della mia bambina e la sua eccezionale bellezza, la legione dei suoi ammiratori, perfino i tempi del suo arrivo – un travaglio che si è allungato fino a occupare alcuni dei giorni più sacri del calendario liturgico – hanno il segno di una storia sovrannaturale.
Noi mitizziamo perfino le nascite più normali. Le storie più straordinarie si trovano nelle epopee del mondo, dall’antica Grecia fino ai fondamenti del cristianesimo. Come la versione dettagliata della nascita di Noè, arrivata all’attenzione dell’opinione pubblica con la scoperta dei rotoli del mar Morto. In questa versione, il bambino nasce con la pelle bianca come la neve, capelli bianchi come lana e occhi straordinari che illuminano la stanza. Suo padre, Lamech, è turbato dall’aspetto del neonato, così diverso dal suo, ed è anche sospettoso. Negli ultimi tempi era circolata la voce che gli angeli se la fossero spassata con donne mortali, e quel bambino aveva caratteristiche decisamente angeliche. Consulta suo padre Matusalemme, che a sua volta cerca il consiglio del padre Enoch. Alla fine Lamech scopre che i capelli bianchi, gli occhi luminosi e la pelle candida sono attributi della vocazione divina del bambino. “Chiamalo Noè”, dice Enoch. “Quando tutta l’umanità che oggi popola la terra morirà, lui sarà salvo”.
Quando il testo di alcuni rotoli viene pubblicato, negli anni cinquanta, la storia di questa nascita colpisce un oftalmologo britannico, Arnold Sorsby, che nel 1958 scrive un articolo per il British Medical Journal: “Noè, un albino”. Per dimostrare la sua tesi, inserisce una scomposizione genetica accompagnata da un diagramma che spiega lo schema ereditario dell’albinismo di Noè. Solo nel paragrafo finale fa capire che l’articolo è una parodia, quando discute approfonditamente l’ereditarietà genetica recessiva degli angeli.
Leggo questo articolo poco dopo la nascita della mia eterea bambina (“Sua figlia sembra un angelo!” esclama un’altra neomamma all’ospedale). Cerco Sorsby, ma trovo un necrologio invece di un nome nell’elenco del telefono. Quello che metto insieme della storia della sua vita è che negli anni sessanta aveva diretto per sei anni il Journal of Medical Genetics, era stato oftalmologo presso il Royal eye hospital di Londra e si era specializzato nelle malattie genetiche dell’occhio. Tutto questo lascia dedurre che si possano prendere sul serio le sue teorie. Non a caso negli anni ottanta, quando nasce il primo gruppo americano per la difesa degli albini, sceglie come nome ufficiale la sigla Noah, Noè in inglese: National organization for albinism and hypopigmentation.
Faccio leggere l’articolo di Sorsby al dottor Daniel Machiela, professore del dipartimento di studi religiosi alla McMaster University di Hamilton, in Ontario, che conosce bene i manoscritti del mar Morto. È incuriosito, ma non si lascia convincere. “Il suo aspetto fisico ha un valore metaforico e simbolico”, dice il professore, “ed è proprio quello che sembra succedere in questo caso”. Io vorrei collegare la storia di Noè alla mia, perciò suggerisco che i suoi antichi genitori mediorientali probabilmente avevano i capelli, la pelle e gli occhi scuri, e un bambino nato con i capelli bianchi doveva apparire molto strano. “Il senso di queste storie è che Noè non era come gli altri bambini”, dice Machiela. “Lui si distingueva”.
Quando Sadie ha cinque settimane incontriamo una genetista, la dottoressa Lesley Turner. È di una gentilezza squisita mentre visita la nostra piccolina, e io mi fido immediatamente di lei. Avevamo consultato un oftalmologo e ci eravamo resi conto che Sadie ha le caratteristiche dell’albinismo, ma la dottoressa ci ha raccomandato il programma di genetica medica provinciale per una diagnosi definitiva. Andrew e io ci sediamo a un tavolo rotondo in un ufficio dello Health science centre di St. John’s, e io allatto Sadie mentre la dottoressa Turner e un consulente di genetica tracciano il nostro albero genealogico: una storia di svariati disastri, tra cui uno zio morto troppo giovane di sclerosi multipla, un fratello morto ancora più giovane di alcolismo e da tutti e due i lati l’esperienza devastante dell’Alzheimer.
A Sadie vengono prelevati cinque millilitri di sangue, metà del quantitativo normale perché pesa solo cinque chili. Resta in silenzio quando l’ago le buca la pelle, ma fa pipì per lo shock. La minuscola fiala di sangue viene spedita in aereo ai laboratori dell’università del Minnesota, dove immagino una frotta di sconosciuti in camice bianco armati di becher che punzonano codici in macchinari complicati. I risultati arrivano quattro settimane dopo: Sadie è affetta da albinismo oculocutaneo di tipo 1 (Oca1), varianti a e b.
Nell’Oca1a l’enzima tirosinasi, che converte l’amminoacido tirosina in melanina, non riesce a svolgere il suo compito. Nei casi di Oca1b compie uno sforzo parziale, e c’è una certa accumulazione di pigmento: capelli e ciglia più bionde, occhi più scuri. L’Oca1 ha un’incidenza di una su quarantamila nascite. Il gene recessivo può essere trasmesso per secoli, perché per il manifestarsi di questa condizione occorre che entrambi i genitori siano portatori sani. È così raro, così improbabile. Di tutti i bar di tutte le città di tutto il mondo, Andrew entra nello Ship pub di St. John in una ventosa notte di giugno. Lo vedo dall’altra parte del bar e penso che ha un’aria familiare, così mi presento. Il resto è storia genetica.
È uno strano sollievo soccombere al proprio dna. All’inizio della settimana, avevo ricacciato indietro le lacrime quando un’infermiera preoccupata, durante un incontro di sostegno sull’allattamento, aveva guardato Sadie negli occhi chiedendomi: “Le sorride mai? Stabilisce un contatto oculare? Riesce a mettere a fuoco un oggetto?”. No. No. E no. Ma dopo la diagnosi di albinismo, butto via tutti i miei libri sul primo anno di vita del bambino e ignoro i traguardi mensili attribuiti a uno sviluppo normale. La prima volta che Sadie cerca di raggiungere un oggetto (un drago viola sgargiante appeso al seggiolino della macchina), la prima volta che sostiene il mio sguardo, la prima volta che ricambia il mio sorriso, queste cose seguiranno una cronologia diversa e segneranno alcuni dei momenti più emozionanti e profondi della mia vita.
Quando rivedo la dottoressa Turner, un anno dopo, le chiedo cosa si prova a essere il messaggero di un codice genetico. Lei riflette per un attimo. Nel nostro caso, ha notato un progresso verso l’accettazione rispetto alla prima visita, soprattutto in me. Andrew, superata la depressione, sembra ricettivo. I suoi casi più difficili sono quando la prognosi è terminale. Mi racconta di essere entrata nella saletta dove ci siamo conosciute l’anno prima e di aver affrontato un’intera famiglia (bambino, genitori e tutti e quattro i nonni) per dare la notizia del fatale difetto genetico. L’atmosfera era pesante. Il padre piangeva. La dottoressa Turner si era scusata per un attimo con il pretesto di trovare altre sedie, era andata nel suo ufficio, aveva abbassato la testa e fatto qualche respiro profondo, poi si era detta: “Ok, riprenditi”.
“E poi?”, chiedo io.
“E poi sono riuscita a rientrare”, risponde.
“Non è così che dovrebbe andare”, dice una madre grintosa e con gli occhi tristi nella sala d’attesa all’ospedale pediatrico di St. John’s. “Una resta incinta e ha un figlio, e basta, giusto?”. Scuote la testa. “Ho avuto una forte emorragia alla trentesima settimana e poi è stato un inferno”. Ho già visto questa madre: porto Sadie da un mucchio di specialisti che hanno lo studio qui, e i nostri appuntamenti spesso coincidono. La donna indica sua figlia, una piccolina di diciotto mesi con un corpo robusto e una cascata di ricci seduta a un tavolo giallo in miniatura che colora con convinzione. Non capisco il problema, ma scopro che non lo capisce nessuno. Soffre di un ritardo nella crescita. Questa è l’espressione utilizzata per definire i casi in cui un bambino smette di svilupparsi allo stesso ritmo dei suoi coeta-nei. Cominciano normalmente, poi interviene un cambiamento.
Nel folklore europeo quando un neonato ha un brutto carattere, piange per le coliche o cade in un silenzio sospetto, con guance paffute che diventano scarne e occhi luminosi che si infossano, è perché è stato scambiato con un altro. A volte si crede che siano le fate a rapire il bambino e a sostituirlo con un loro rampollo. Le fate hanno continuato a rubare i bebè dalle culle anche in Nordamerica e fino a Terranova, lasciando al loro posto bambini strani, irascibili e rugosi.
Alcuni studiosi riconducono queste storie ai casi di ritardo nella crescita. Una spiegazione sovrannaturale assolve i genitori da ogni colpa: invece di un problema genetico, è uno scambio di identità. Gli permette di piangere il figlio rubato, quello che avevano immaginato per nove lunghi mesi, perché quel bambino è stato portato via dalle fate, e con lui ogni vecchia idea sull’essere genitori.
Non ci sono storie del genere legate all’albinismo perché, fatta eccezione per il nistagmo, la condizione non si sviluppa dopo la nascita. Ma questa eterea bianchezza ispira leggende in tutto il globo, soprattutto dove la gente di solito ha pelle, capelli e occhi più scuri. All’inizio del novecento, l’etnografa neozelandese Makereti Papakura scoprì che tra i maori si crede che gli albini siano figli di donne mortali e uomini sovrannaturali che appartengono a una tribù di biondi abitatori della nebbia. All’incirca nello stesso periodo, gli studiosi occidentali cercarono di verificare la diceria di una “razza albinotica” che viveva con il popolo cuna delle isole San Blas, al largo della costa di Panama. La tesi è stata smontata, ma il luogo sembra avere un’alta incidenza di questa condizione genetica. D.B. Stout, un intrepido antropologo, andò a vivere tra i cuna e scoprì che in alcune comunità le persone affette da albinismo erano associate a un’intelligenza superiore, quasi divina, e poteri magici con cui potevano allontanare un demone che periodicamente provocava le eclissi di Sole e Luna. I successori di Stout scoprono che i cuna affetti da albinismo sono chiamati figli della luna, perché le madri o i padri hanno fissato troppo a lungo il cielo notturno durante la gestazione.
Stampo gli articoli sull’albinismo nel folklore e li tengo in una cartella sulla mia scrivania. Sono appoggiati accanto al raccoglitore con i documenti medici di Sadie, divisi in cinque sezioni. In un certo senso, quello che ho scoperto sui figli della luna delle isole San Blas è importante quanto la letteratura medica per la mia comprensione di questa condizione genetica.
A giugno, portiamo Sadie dalla dottoressa Elise Héon, capo oftalmologa all’ospedale pediatrico di Toronto. È una donna alta e bella, indossa un vestito senza maniche stampato con un paesaggio bucolico. Ci ringrazia per il nostro lungo viaggio e ci riempie di attenzioni. È una presenza che incute rispetto. Perfino Sadie, traumatizzata da un test precedente con tanto di elettrodi sulla testa e luce stroboscopica, soccombe immediatamente al fascino della dottoressa e cerca di farsi prendere in braccio.
Parlando un inglese eccellente anche se con un po’ di accento, la dottoressa Héon ci informa che nostra figlia non guiderà mai una macchina. Non riesco a immaginare Sadie, che ha sei mesi, al volante di un’auto più di quanto riesca a immaginarla con una forchetta. Il futuro è scivoloso e difficile da afferrare. A volte m’immagino mentre vado dalla sua maestra per parlare di come si possa evitare il flash il giorno della foto di classe. “Forse quest’anno potrebbe valutare l’opportunità di una foto all’aperto?”, la mia futura me stessa chiederà alla futura maestra di Sadie. Ma quando mi raffiguro la scena, sono in piedi nell’atrio della mia vecchia scuola elementare e parlo con la signora Vijendren, la mia maestra di allora. Non ho nessun quadro di riferimento per il futuro di Sadie. E neppure per il mio, se è per questo.
Dopo la mattinata all’ospedale facciamo una passeggiata fino all’Art gallery of Ontario per vedere la mostra dedicata agli espressionisti astratti. Nel mondo ovattato dello spazio espositivo la mia mente vaga. Sadie è addormentata nel suo passeggino, sepolta sotto l’ingombrante protezione grigia contro i raggi ultravioletti. Diversi quadri di Mark Rothko – gigantesche distese di colore – dominano un angolo della galleria, paesaggi fluttuanti in uno scintillio di sfumature, così privi di dettagli eppure densi di emozione. È così che vedrà Sadie, penso, in gigantesche distese di colore, come un espressionista astratto.
Qualche giorno dopo, durante una riunione di famiglia vengo incastrata dall’amica di un parente, instancabile raccontatrice di storie discutibili. “Mia zia è albina”, dice. “Durante il giorno, le rare volte in cui usciva doveva coprirsi la testa con una coperta, ma per lo più la facevano lavorare nei campi di notte durante i temporali. Tutti credevano che fosse una strega”. “Davvero?”, le chiedo poco convinta. “Ti è capitata la patata bollente genetica”, commenta scuotendo il capo. Mi fa imbestialire che questa brutta grassona definisca la mia stupenda bambina una manifestazione di geni difettosi. Ma sono gli incontri fuori casa a logorarmi di più. Una folla di clienti si materializza nel supermercato quando spingo mia figlia nel carrello lungo le corsie: colli allungati, dita puntate, occhi sbarrati per lo stupore: “Il colore dei capelli l’ha preso da lei o da suo marito?”, chiedono. La risposta è “da tutti e due”, ovviamente, perché è un tratto recessivo.
In autunno Sadie deve mettersi gli occhiali, per cercare di controllare il nistagmo e migliorare la visione da lontano. In quella montatura di plastica rosa che affonda nelle sue guance paffute c’è qualcosa che mi turba profondamente. Esplodo in singhiozzi rapidi e rumorosi nello studio dell’optometrista. Anche quando riesco a ricompormi mi scappa qualche singulto.
Più o meno nello stesso periodo, una notte vengo svegliata da un ubriaco che sta sfasciando le auto parcheggiate sulla nostra strada. I suoi pugni piovono ripetutamente su cofani, bagagliai e parabrezza. I colpi della carne sul metallo e sul vetro somigliano a uno strano rullio di tamburi, punteggiato dalla sua rabbia furibonda. Il mattino dopo vedo due macchine con il parabrezza spaccato. Quella stessa settimana, un vicino mi dice che l’uomo è tornato e ha lasciato una busta con 250 dollari sul parabrezza di una delle auto danneggiate. Dentro, un biglietto diceva: “Mi spiace di avervi sfasciato i finestrini. Non so cosa mi era preso”. Questa esplosione e le scuse successive mi colpiscono profondamente. Certe giorni vorrei mettermi a gridare fuori dal portone come uno spirito di morte e fare a pezzi tutto, per poi lasciare un biglietto di scuse e riprendere la vita di sempre. Invece per la preoccupazione mi strofino la testa fino a procurarmi due macchie lucide sopra le orecchie. Mentre riordino le foto di una vacanza primaverile, rimango scioccata nel vedere quelle chiazze di calvizie che spuntano tra i capelli, come un secondo paio di occhi. La maternità, con la sua mancanza di sonno che ti incurva la schiena e il pianto costante del bambino, è una terra lontana e sconosciuta. Non proprio il Tibet, ma almeno la Danimarca o la Croazia.

A otto mesi Sadie comincia a frequentare la sede locale del Cnib (Canadian national institute for the blind), un centro dove possiamo usare una sala giochi progettata per bambini ipovedenti. Si chiama sala Snoezelen (un brutto neologismo olandese composto con le parole “odorare” e “sonnecchiare”) e rievoca vaghe memorie di discoteche europee che avevo frequentato quando avevo vissuto nella Francia del sud. Anche se a volte somiglia a un antro buio, è un folle mucchio di luci lampeggianti, specchi, pavimenti imbottiti, giocattoli che s’illuminano e grossi cuscini sotto una convincente proiezione di stelle. C’è un’altra proie-zione di una scena subacquea in un cerchio tracciato sulla parete, come se sbirciassimo dall’oblò di un sottomarino. La vista di Sadie migliora a ogni visita, finché un giorno si accorge delle stelle sul soffitto. Insieme alle lezioni di musica, ai gruppi di gioco e alla ginnastica per bambini, la sala Snoezelen diventa per mamma e figlia un nuovo modo per conoscersi. Eppure qualche mese fa, spingendo il passeggino attraverso le porte del Cnib per la prima volta, ero d’accordo con la donna che avevo incontrato nella sala d’attesa all’ospedale di St. John’s: “Non è così che dovrebbe andare”.
Invece sì. Vedo un sacco di altri bambini con gli occhiali da sole e viviamo in un’epoca di vestiti a prova di raggi ultravioletti e di attenzione al fattore di protezione solare. Che la nostra vista sia buona o danneggiata, tutti noi usiamo dispositivi tecnologici che facilitano le attività quotidiane. Sadie è bellissima, sveglia e incredibilmente buffa, e soprattutto è amata. La sua rete di relazioni comincia con due genitori innamorati cotti e si estende alla famiglia e agli amici, a una squadra di medici e a un cane che ogni mattina aspetta davanti alla porta della sua stanzetta agitando la coda per l’entusiasmo. Tra i suoi fan ci sono le mamme laureate del nostro gruppo di bambini, le baby sitter, la commessa del negozio di alimentari e il postino, che per un anno consegna pacchetti settimanali alla bimba bionda del numero 62.
Prima che arrivasse Sadie, i genitori compiaciuti mi dicevano che si conosce davvero l’amore solo quando si ha un figlio. Io pensavo si riferissero all’amore che provi per il tuo bambino, e ora so che è immenso e indefinibile. Però adesso mi chiedo se intendevano qualcosa di più. È l’amore che riceviamo a stupirmi. Non sai mai quante persone ti vogliono bene finché non vai a rotoli e tutti ti raccolgono, un pezzo per volta, e ti rimettono in piedi.
Io raccolgo storie, e queste sono il mio repertorio. Di tanto in tanto, frammenti di narrative più cupe si intrufolano nella mia raccolta. Leggo delle credenze popolari diffuse in Zimbabwe e Tanzania, dove alcuni considerano l’albinismo come una maledizione, un contagio o una punizione per l’infedeltà della madre con uno spirito maligno. In questi paesi, decimati dalla malattia, si dice che andare a letto con una donna albina possa curare l’aids.
“La stessa cultura che può elevarmi alla divinità può trasformarmi in un demonio”, dice Peter Ash, un abitante della Columbia Britannica affetto da albinismo che ha fondato Under the same sun, un’organizzazione no profit di Vancouver che cerca di migliorare la vita degli albini in Tanzania. Ash parla molto in fretta, e snocciola le atrocità inflitte alla popolazione albina della Tanzania in rapida successione: stupro, violenza, smembramento, stigma sociale, abbandono, vita da orfani, infanticidio. Mi racconta di aver conosciuto un bambino al quale i genitori avevano fatto tagliare una mano dai bracconieri. I cacciatori vendono le parti del corpo degli albini agli stregoni, che credono nelle loro proprietà magiche e le usano per fare pozioni curative. Ash rimane molto oggettivo quando discute questi problemi. Io lo sono di meno. La mia oggettività è velata da echi di giudizi coloniali. “Come posso interpretarlo?”, chiedo alla mia ex insegnante Diane Goldstein, docente di folklore all’Indiana university e nota studiosa di credenze popolari che si definisce “una relativista culturale”. Lei mi ricorda che devo prendere in considerazione il contesto, e dice che nel suo lavoro sulle leggende legate all’aids e, più recentemente, sull’infanticidio, ha scoperto che “al cuore di queste credenze ci sono importanti questioni culturali che sono profondamente umane”.
E quanto sono diverse queste credenze dalle nostre? Hollywood è la strega del Nordamerica, e altrettanto barbarica. Film molto popolari come Il codice Da Vinci, Matrix reloaded e La storia fantastica hanno tutti come eroe malvagio un albino. Anche se ci consideriamo moderni, buona parte della nostra fede e delle nostre conoscenze è avvolta di leggende.
Dopo aver letto per mesi saggi sulle cure parentali e riviste mediche, torno ai romanzi. Scelgo Dal ventre della balena di Michael Crummey, e nelle prime pagine un uomo bianchissimo viene estratto dal ventre di una balena spiaggiata, con grande orrore e incantato stupore degli abitanti del paesino che assistono all’avvenimento. L’uomo viene ribattezzato Giudeo, e c’è qualcosa di sovrannaturale nel suo mutismo e nella sua bianchezza. Spesso parlano di lui come “l’albino”.
Negli anni che ho trascorso a Terranova, la mia strada e quella di Crummey si sono incrociate diverse volte. È un uomo gentile e affabile, e mi piace come condisce le sue frasi cortesi con imprecazioni empatiche. Accetta di parlare con me del personaggio di Giudeo.
C’incontriamo in un ufficio nella biblioteca della Memorial university – dove Crummey ha studiato e dove io sto lavorando al mio dottorato di ricerca – e lui mi spiega che la bianchezza di Giudeo non è associata a una condizione genetica. Nel libro un medico visita Giudeo e dichiara che “non è un vero albino”, e Crummey commenta scherzando: “Magari, considerando la tua esperienza personale, si è semplicemente sbagliato”. Era una decisione pratica: Giudeo è stato sbiancato dall’acido contenuto nello stomaco della balena. Però la bianchezza spalancava una serie di possibilità letterarie. “Il bianco è la pagina vuota”, dice Crummey. “È la tela ancora intatta, e così quello che ho visto accadere nel libro è che Giudeo era la tela bianca dove la gente poteva proiettare tutto ciò che desiderava di più o che temeva di più. La comunità creava Giudeo all’infinito perché era vuoto”.
Il bianco è il non colore, al tempo stesso enigmatico e profondo. Penso alla bianchezza di Noè, simbolica di un cammino divino. Penso alla gente con i capelli chiari che vive nella nebbia della Nuova Zelanda, ai figli della luna su una collana di isole al largo di Panama e ai bambini di Terranova che andavano via con le fate. Penso alla minuscola bambina dai capelli bianchi che dormiva nella sua culletta di plastica mentre metà ospedale sfilava al suo fianco intimorita.
Non riesco a tornare a quei pochi giorni nel reparto maternità, prima che la scienza minacciasse la mia versione della storia, quando mi raccontavo la mia favola e consideravo la bellezza di mia figlia come qualcosa di magico e ultraterreno. Non sono sicura che per noi sia meglio sapere la storia delle molecole invece della fiaba popolare o se c’è spazio per entrambe. La medicina difficilmente può offrire il conforto assicurato dalle fiabe. Almeno nello nostre storie personali, siamo noi ad avere il controllo. È questo il valore del folklore: dà forma all’inconoscibile. Può essere incoraggiante o pericoloso, ma in ultima analisi spiega le differenze umane come la scienza non riuscirà mai a fare. Ogni tanto rimpiango il mio breve secolo oscuro, ma è una strana nostalgia perché non riesco a immaginare che la vita – e più specificamente mia figlia – possa essere diversa, e alla fine non è questo che voglio.
Quando Sadie ha un anno, la dottoressa Turner c’invita a raccontare la nostra storia di scoperta genetica agli studenti di medicina del primo anno. Noi siamo nervosi e ci prepariamo troppo, con una presentazione in PowerPoint di 21 diapositive e sette pagine di appunti. L’incontro fila liscio fino a quando tocchiamo l’argomento di un possibile secondo figlio. C’è una probabilità su quattro che sia albino, e una su due che sia un portatore sano. E infine c’è una possibilità su quattro che il gene non sia presente. Questi numeri non mi dicono niente più dei fondi di caffè o dei tarocchi. Un secondo figlio avrà questa condizione oppure non l’avrà.
Per il momento, è solo una riga nei nostri appunti: “Parlare di dna/test in vitro”. Il resto del foglio è bianco, perché siamo arrivati alla fine della storia, per ora. Dobbiamo guardare la cinquantina di volti che riempiono la stanza e alzare le spalle, impotenti davanti al fato e davanti a un sistema di connessioni che fatico a capire. Il dominatore invisibile a cui dobbiamo ubbidire è sospeso – secondo quello in cui credi – tra Dio, le fiabe e la scienza. La presentazione finisce qui. Gli studenti applaudono e Sadie alza la testa dalla terza fila, dove ha incastrato il girello tra uno zaino e una scrivania. Gli applausi finiscono, e gli studenti ci fanno domande a cui sappiamo rispondere, domande su cose che sono già successe. Sadie libera il girello, si volta e si precipita nella direzione opposta, felice di conquistare l’attenzione degli studenti, contenta di sentire la voce dei genitori in sottofondo perché sa che siamo lì, che la guardiamo e facciamo in modo (per ora) che il suo mondo sia ovattato e sicuro.
Raccontare la nostra storia agli studenti di medicina non è terribile come avevo immaginato. La realtà è che racconto versioni di questa storia ogni giorno. La racconto ai clienti curiosi del supermercato e alle mamme dei gruppi di gioco. La racconto a chi mi è seduto accanto in aeroplano e agli sconosciuti nei parchi. La ripeto come una fiaba popolare, molte volte, e cambia a seconda del contesto e del pubblico. Un giorno la passerò alla persona che conta di più, perché è la sua storia, dopo tutto. Mi chiedo come la racconterà.

Emily Urquhart
è una studiosa di folklore e scrittrice canadese. Questo articolo è uscito su The Walrus con il titolo The meaning of white. Traduzione di Giuseppina Cavallo.



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